TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO 
                            prima civile 
 
    Nella causa civile iscritta al n. r.g.  23608/2018  M.  K.  (c.f.
... ),  ASGI-Associazione  studi  giuridici  sull'immigrazione  (c.f.
97086880156),    NAGA-Associazione    volontaria    di     assistenza
socio-sanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom  e  sinti
(c.f. 97058050150) e  Confederazione  generale  italiana  del  lavoro
Lombardia (c.f. 94554190150), con il patrocinio dell'avv. Neri  Livio
e  dell'avv.  Guariso   Alberto   (GRSLRT54S15F205S),   elettivamente
domiciliati in  Milano,  viale  Regina  Margherita  n.  30  presso  i
difensori, ricorrenti; 
    Contro Regione Lombardia (c.f. 80050050154),  con  il  patrocinio
dell'avv. Tamborino Maria Lucia, elettivamente domiciliata in Milano,
piazza Citta' di Lombardia n. 1, presso il difensore, resistente; 
    Il Giudice, a scioglimento della riserva che precede,  ha  emesso
la seguente ordinanza. 
    Oggetto: Discriminazione. 
 
                           Fatto e Diritto 
 
    Con ricorso ex art. 44 decreto legislativo n. 286/1998, M. K., la
CGIL  Lombardia,   l'   ASGI-Associazione   degli   studi   giuridici
sull'immigrazione - e il NAGA-Associazione volontaria  di  assistenza
socio-sanitaria e per i diritti dei cittadini stranieri, rom e  sinti
(di seguito, solo ASGI e NAGA), hanno convenuto in  giudizio  dinanzi
al Tribunale  di  Milano  la  Regione  Lombardia,  chiedendo,  previo
occorrendo  rinvio  alla  Corte  costituzionale  o  alla   Corte   di
giustizia: 
        accettare e dichiarare  il  carattere  discriminatorio  della
condotta tenuta dalla Regione Lombardia consistente nell'aver emanato
il regolamento Regionale di cui alla delibera X/7004  del  31  luglio
2017 nella parte in cui (art. 7, comma  1,  lettera  d)  esclude  dal
sistema abitativo pubblico lo straniero  titolare  del  permesso  per
protezione internazionale, del permesso umanitario ex art.  5,  comma
6, TU immigrazione, del permesso per soggiornanti di lungo periodo ex
art. 9 TU immigrazione (e in conseguenza  anche  l'italiano)  qualora
questi abbia la titolarita' di diritti di proprieta' o altri  diritti
reali di godimento su beni immobili ubicati all'estero; in  subordine
nella parte in cui (art. 7, comma 1, lettera d) prevede che, ai  fini
dell'accesso al sistema abitativo pubblico,  il  cittadino  extra  UE
debba documentare l'assenza di  diritti  di  proprieta'  o  di  altri
diritti reali di godimento su beni  immobili  ubicati  all'estero  in
forme diverse da quelle che  vengono  richieste  all'italiano;  nella
parte in cui (art. 7, comma 1, lettera b) prevede  per  l'accesso  ai
servizi abitativi pubblici il requisito della residenza  o  attivita'
lavorativa quinquennale nella regione o, in subordine, nella parte in
cui  prevede  detti  requisiti  anche  per  i  nuclei  familiari   in
condizioni di indigenza di cui all'art. 13 del regolamento, e per gli
interventi di emergenza abitativa di cui all'art. 23, comma 13,  L.R.
n. 16/2006; 
        accertare   e   dichiarare   il   carattere   discriminatorio
dell'esclusione del ricorrente M. K. in ragione del mancato  possesso
del requisito della residenza o attivita' lavorativa quinquennale; 
        conseguentemente   ordinare   alla   Regione   Lombardia   di
modificare  il  predetto  regolamento,   escludendo   le   previsioni
discriminatorie nelle parti sopra indicate; 
        ordinare di ammettere il sig.  M.  K.  alle  graduatorie  per
edilizia  ERP  anche  in  assenza  del  requisito   della   residenza
quinquennale o dello  svolgimento  di  attivita'  lavorativa  per  il
quinquennio antecedente la domanda; 
        in subordine, in caso di  rigetto,  della  predetta  domanda,
condannare Regione Lombardia a risarcire al  ricorrente  M.  i  danni
derivanti dall'illegittima esclusione, pagando allo stesso un importo
da determinarsi in via equitativa, che si indica in euro  300,00  per
ogni mese intercorso tra l'ottobre 2017 e la data di  compimento  del
quinquennio o di eventuale accesso al servizio abitativo pubblico; 
        adottare  un  piano  di   rimozione   delle   discriminazioni
accertate, assumendo ogni utile provvedimento al fine di  evitare  il
reiterarsi della discriminazione  e,  in  particolare,  a  tal  fine,
ordinare alla convenuta di dare adeguata pubblicita'  alla  decisione
giudiziale, pubblicandola sul proprio sito  istituzionale  o  con  le
altre forme che il Giudice riterra' di individuare, con  vittoria  di
spese da distrarsi in favore dei difensori antistatari. 
    Hanno dedotto i ricorrenti: 
        che, ai sensi dell'art. 1, comma 1, della  L.R.  n.  16/2016,
finalita' dei servizi abitativi pubblici e' quello di «soddisfare  il
bisogno abitativo primario e ridurre il disagio abitativo dei  nuclei
familiari, nonche' di particolari categorie sociali in condizioni  di
svantaggio»; 
        che l'art. 7, comma 1, lettera d) del regolamento regionale 4
agosto 2017 n. 4, introducendo un esplicito  divieto  di  accesso  al
sistema abitativo pubblico per chi sia proprietario  di  un  alloggio
all'estero,   in   modo   irragionevole,   non   prende   in   alcuna
considerazione  la  condizione  di  poverta'   o   di   bisogno   del
richiedente, per il solo fatto che egli disponga, in qualsiasi  parte
del mondo, di un alloggio di proprieta'. Tale  previsione,  peraltro,
fissa  un'incompatibilita'   in   relazione   alla   sola   metratura
dell'alloggio, negando qualsiasi rilevanza alle relative condizioni; 
        che  la  predetta  previsione  risulta  non  applicabile   ai
titolari di protezione  internazionale  e  ai  titolari  di  permesso
umanitario, che non possono far ritorno nel loro paese d'origine; 
        che la norma in esame, pur essendo apparentemente  rivolta  a
tutti, pone  gli  stranieri  (i  quali,  in  quanto  migranti,  hanno
presumibilmente vissuto molti anni all'estero) in una  condizione  di
particolare svantaggio rispetto  ai  cittadini  italiani  e  che,  in
particolare, tale svantaggio configura una discriminazione  indiretta
per i titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di  lungo
periodo e per i titolari di permesso di soggiorno almeno  biennale  e
che  esercitano  una  regolare  attivita'  di   lavoro   autonomo   o
subordinato; 
        che l'art. 7 del regolamento  prevede  che  il  cittadino  di
paesi  extra  UE  debba  affiancare  al  modello   ISEE   anche   una
dichiarazione di' impossidenza  di  alloggi  adeguati  nel  paese  di
provenienza e che tale previsione pone lo straniero in una condizione
di particolare svantaggio; 
        che l'art.  7  del  citato  regolamento  prevede  che  tra  i
requisiti per avere accesso ai  servizi  abitativi  pubblici  vi  sia
anche  la  residenza  anagrafica  o  lo  svolgimento   di   attivita'
lavorativa  in  Regione  Lombardia  da  almeno  5  anni  nel  periodo
immediatamente precedente la data di presentazione della domanda; 
        che tale previsione riguarda la generalita'  dei  richiedenti
e, dunque, anche i  nuclei  familiari  in  condizioni  di  indigenza,
trovando applicazione anche nella c.d. «emergenza abitativa»; che  la
disposizione in esame costituisce una  discriminazione  indiretta  in
danno degli  stranieri,  che  godono  del  diritto  alla  parita'  di
trattamento nell'accesso all'abitazione. 
    Con comparsa depositata il 5 luglio 2018,  si  e'  costituita  la
Regione  Lombardia  eccependo,   preliminarmente,   il   difetto   di
giurisdizione   del   giudice   ordinario   in   favore   di   quello
amministrativo, la carenza di interesse in capo al sig. K.  -  atteso
che, al momento della presentazione della sua domanda, non era ancora
entrato in vigore  il  regolamento  regionale  n.  4/2017  e  che  il
requisito  della  residenza  quinquennale  era  stato  gia'  ritenuto
legittimo  dalla  Corte   costituzionale   -,   e   il   difetto   di
legittimazione attiva della CGIL regionale, non iscritta  nell'elenco
previsto dall'art. 5 del decreto legislativo n. 215/2003.  Ancora  in
via preliminare, l'ente convenuto ha eccepito l'inammissibilita'  del
ricorso per omessa notifica  al  Comune  di  Milano,  ritenuto  parte
necessaria alla luce della domanda di rimozione del provvedimento  di
esclusione dalla graduatoria comunale ERP. 
    Nel merito, la difesa della regione ha dedotto: 
        che la proprieta' o  il  possesso  di  un  diritto  reale  di
godimento riferito ad un alloggio adeguato e'  causa  di  impedimento
per chiunque, indipendentemente dalla nazionalita',  sul  presupposto
che  dall'immobile  potrebbe  essere  tratto  comunque  un  vantaggio
economico; 
        che, con riferimento all'attestazione di non  possidenza,  la
stessa era richiesta solo all'assegnatario,  ai  sensi  dell'art.  3,
comma 4, del decreto del Presidente  della  Repubblica  n.  445/2000,
mentre, in fase di presentazione  dell'istanza,  al  richiedente  era
chiesta una semplice dichiarazione, che non aveva costi ne'  imponeva
particolari oneri burocratici; 
        che,  in   merito   all'autocertificazione,   la   denunciata
disparita' di' trattamento non sussisteva, in quanto il limite  degli
stati, qualita' personali o fatti riscontrabili presso  una  pubblica
amministrazione italiana valeva per tutti; 
        che, con riferimento al requisito di residenza  anagrafica  o
di  svolgimento  di'  attivita'  lavorativa  quinquennale,  la  Corte
costituzionale, con ordinanza n. 32/2008, aveva gia' statuito che  il
requisito della residenza continuativa non risultava irragionevole; 
        che la domanda risarcitoria era del tutto  infondata,  atteso
che nessun comune aveva ancora indetto avvisi per la presentazione di
domande per l'assegnazione di alloggi ai  sensi  del  regolamento  n.
4/17 e che la partecipazione al bando non avrebbe comunque  garantito
l'assegnazione di un alloggio. 
    All'udienza del 17 luglio 2018  le  parti  hanno  discusso  e  il
giudice ha rinviato per la discussione e decisione, con  termine  per
note sino al 5 novembre 2018. 
    All'udienza del 28 novembre 2018, depositate le  note  difensive,
le parti hanno  discusso  la  causa  -  anche  con  riferimento  alle
sentenze della Corte costituzionale n.  106,  107  e  166  del  2018,
depositate dopo l'instaurazione del presente ricorso - ed il  giudice
ha riservato la decisione. 
1. Giurisdizione del giudice ordinario adito. 
    La  difesa  regionale  invoca  la   giurisdizione   del   giudice
amministrativo  in  virtu'  del  carattere  di  atto  normativo   del
regolamento impugnato e del limite della giurisdizione esclusiva,  in
materia di servizi pubblici, quali l'edilizia residenziale pubblica. 
    Come da tempo chiarito  dalla  Suprema  corte,  l'indagine  sulla
sussistenza  di  un  «trattamento  favorevole  connesso  al   fattore
vietato» rientra nella  giurisdizione  del  giudice  ordinario  anche
quando - come nel caso  di  specie  -  questo  sia  posto  in  essere
mediante l'adozione di atti amministrativi (cfr. Cassazione SS.UU. n.
7186/2011).  L'invocato  riferimento  alla  giurisdizione   esclusiva
appare del tutto inconferente, proprio alla luce di quanto  affermato
dalle Sezioni unite nella  sentenza  appena  richiamata.  La  Suprema
corte, infatti, ha definitivamente  chiarito  che:  «in  presenza  di
normative che, al  fine  di  garantire  parita'  di  trattamento,  in
termini particolarmente incisivi e circostanziati, e correlativamente
vietare discriminazioni ingiustificate,  con  riferimento  a  fattori
meritevoli di particolare considerazione sulla  base  di  indicazioni
costituzionali o fonti sovranazionali articolano in maniera specifica
disposizioni    di    divieto    di    determinate    discriminazioni
contemporaneamente istituiscono strumenti processuali speciali per la
loro repressione, affidati lai giudice ordinario, deve ritenersi  che
il legislatore  abbia  inteso  configurare,  a  tutela  del  soggetto
potenziale vittima delle discriminazioni, una specifica posizione  di
diritto soggettivo, e specificamente un  diritto  qualificabile  come
"diritto assoluto" in quanto posto a presidio di una area di liberta'
e potenzialita' del soggetto, rispetto a qualsiasi tipo di violazione
della stessa. Il fatto che la posizione tutelata  assurga  a  diritto
assoluto, e  che  simmetricamente  possano  qualificarsi  come  fatti
illeciti i comportamenti di mancato rispetto della stessa, fa si' che
il contenuto e l'estensione delle  tutele  conseguibili  in  giudizio
presentino aspetti di atipicita' e di variabilita' in dipendenza  del
tipo di condotta lesiva che e' stata messa in essere  e  anche  della
preesistenza o meno di posizioni soggettive di  diritto  o  interesse
legittimo del soggetto leso a determinate  prestazioni.  Di  cio'  si
trova riscontro nel dettato normativo, secondo cui  il  giudice  puo'
"ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e  adottare
ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a  rimuovere
gli effetti della discriminazione"(decreto legislativo  n.  2876  del
1998, art. 44, comma 1), oltre  che  condannare  il  responsabile  al
risarcimento del danno  (comma  7).  Risulta  quindi  spiegabile,  in
particolare, come, in  relazione  a  discriminazioni  del  genere  di
quelle in esame, anche  quando  esse  siano  attuate  nell'ambito  di
procedimenti  per  il  riconoscimento   da   parte   della   pubblica
amministrazione di  utilita'  rispetto  a  cui  il  soggetto  privato
fruisca di una posizione di interesse  legittimo  e  non  di  diritto
soggettivo, la tutela del privato rispetto alla discriminazione possa
essere assicurata secondo il modulo del diritto  soggettivo  e  delle
relative protezioni giurisdizionali». 
    Deve  ritenersi  sussistente,  pertanto,  la  giurisdizione   del
giudice ordinario adito. 
2. Interesse ad agire del sig K. 
    Come noto, l'interesse ad agire richiede non solo  l'accertamento
di  una  situazione  giuridica,  ma  anche  che  la  parte  prospetti
l'esigenza   di   ottenere   un   risultato   utile,   giuridicamente
apprezzabile, e non conseguibile senza l'intervento del giudice. 
    Secondo  il  consolidato  insegnamento   della   Suprema   corte,
l'interesse ad agire, previsto quale condizione dell'azione dall'art.
100 cod. proc., civ., con disposizione che  consente  di  distinguere
fra le azioni di mera iattanza  e  quelle  oggettivamente  dirette  a
conseguire il bene della vita consistente nella rimozione dello stato
di giuridica incertezza in ordine alla sussistenza di un  determinato
diritto, va identificato in una  situazione  di  carattere  oggettivo
derivante da un fatto lesivo, inteso in senso ampio,  di  un  diritto
che, senza il processo e privato dell'esercizio della  giurisdizione,
resterebbe sfornito di tutela, con conseguente danno per l'attore. Da
cio' consegue che tale interesse deve avere necessariamente carattere
attuale, poiche' solo in tal caso trascende  il  piano  di  una  mera
prospettazione  soggettiva  assurgendo  a  giuridica   ed   oggettiva
consistenza,  e  resta  invece  escluso  quando   il   giudizio   sia
strumentale alla soluzione soltanto in via di massima o accademica di
una questione di diritto in vista di situazioni  future  o  meramente
ipotetiche (v. fra le tante Cass, n. 5635/02, n. 3157/01, n.  565/00,
n. 4444/95, n. 685/93; piu' di' recenti, v.  Cass.  n.  24434/07,  n.
2617/06, n. 17815/05). 
    Nel caso  in  esame,  basti  rilevare  che  per  il  sig.  K.  di
cittadinanza  tunisina,  l'asserita  violazione   risulta   consumata
all'atto dell'esclusione dalla possibilita' di presentare la domanda,
operata in ragione della previsione di un requisito  -  la  residenza
quinquennale in Lombardia - prevista sia  dal  regolamento  regionale
vigente al momento della presentazione della  domanda  da  parte  del
ricorrente  sia  dal  regolamento  successivamente   adottato   dalla
resistente. Deve,  pertanto,  ritenersi  sussistente  l'interesse  ad
agire in capo al sig. K. 
    Per  completezza,  appare  inoltre  opportuno  ricordare  che  il
ricorrente puo' agire anche quando la condotta o l'atto «non sia piu'
sussistente» (art. 4, comma 4, decreto legislativo n. 215/2003) e che
l'accesso all'azione antidiscriminatoria deve essere garantito «anche
dopo  la  cessazione  del  rapporto  che  si   lamenta   affetto   da
discriminazione» (art. 7, comma 1, della direttiva n. 2000/43). 
3. Legittimazione attiva della CGIL regionale. 
    La Regione Lombardia contesta la legittimazione  ad  agire  della
CGIL Lombardia, in quanto non iscritta negli elenchi di cui  all'art.
5 del decreto legislativo n. 215/2003. 
    L'ultimo comma  dell'art.  5  decreto  legislativo  n.  215/2003,
stabilisce che «Le associazioni e gli enti  inseriti  nell'elenco  di
cui al comma 1 sono, altresi', legittimati ad agire  ai  sensi  degli
articoli 4 e 4-bis nei casi di discriminazione collettiva qualora non
siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla
discriminazione» con cio' prevedendo una legittimazione straordinaria
delle  associazioni  qualora  il  comportamento  discriminatorio  sia
collettivo e non siano individuabili in via immediata  e  diretta  le
vittime della discriminazione. 
    Nel caso in esame, non e' contestato che la  CGIL  Lombardia  non
risulti  iscritta  nel  predetto  elenco.  Le  ricorrenti   invocano,
comunque, la legittimazione ad agire della predetta  associazione  in
quanto legittimata a difendere, in via giurisdizionale, gli interessi
di  categoria  dei  soggetti   di   cui   hanno   la   rappresentanza
istituzionale e non gli interessi dei singoli iscritti. 
    In relazione all'eccepito  difetto  di  legittimazione  ad  agire
delle  odierni  ricorrenti,  preliminarmente  si  evidenzia  che   la
legitimatio ad causam «si risolve nella titolarita' del potere o  del
dovere (rispettivamente per la legittimazione attiva  o  passiva)  di
promuovere o subire un giudizio in  ordine  al  rapporto  sostanziale
dedotto in causa, indipendentemente  dalla  questione  dell'effettiva
titolarita' del lato  attivo  o  passivo  del  rapporto  controverso»
(cfr., ex multis, Cass., sentenza n. 16678 del 12 agosto 2005). 
    Orbene, nel caso in esame, appare opportuno precisare che,  anche
a  prescindere  dalla  formale  iscrizione  nei   predetti   elenchi,
un'associazione sindacale puo' ritenersi senz'altro portatrice di  un
interesse collettivo  consistente  nella  rimozione  degli  ostacoli,
sociali ed economici, che  impediscono  ai  lavoratori  stranieri  di
poter orientare le proprie scelte di vita e di  lavoro  senza  subire
discriminazioni (cfr. Consiglio di  Stato  n.  4487  del  26  ottobre
2016). 
    Tanto  premesso,  nel  caso  di  specie,  pur  condividendosi  le
argomentazioni svolte dal Consiglio di Stato nella citata  pronuncia,
in assenza dello Statuto della  CGIL  Lombardia  (non  prodotto  agli
atti, ove risulta, invece, prodotto solo quello della CGIL, sub. doc.
13), non puo' verificarsi e, sulla base delle specifiche disposizioni
statutarie, l'associazione ricorrente sia legittimata a difendere, in
sede giurisdizionale,  l'interesse  di  categoria  (per  i  cittadini
stranieri) costituito dal diritto di accedere  al  sistema  abitativo
pubblico in condizioni di parita' con i cittadini italiani. 
    Deve, pertanto, essere dichiarato il difetto di legittimazione ad
agire in capo alla CGIL Lombardia. 
4. Necessita' dell'integrazione del contraddittorio nei confronti del
Comune di Milano. 
    In merito alla richiesta  di  integrare  il  contraddittorio  nei
confronti del Comune di  Milano,  chiamato  a  dare  attuazione  alle
disposizioni del regolamento regionale per cui e' causa -  e  dinanzi
al quale il sig. K.  ha  presentato  la  domanda  per  l'assegnazione
dell'alloggio di edilizia residenziale pubblica -  si  osserva  come,
nel  caso  in  esame,  non  sussista  un'ipotesi  di   litisconsorzio
necessario. Deve, infatti escludersi  che,  nel  caso  in  esame,  ne
sussistano le condizioni, richiedendosi a tal fine, al di  fuori  dei
casi espressamente previsti dalla legge (non sussistenti nel caso  di
specie), che la situazione dedotta in giudizio debba essere decisa in
maniera unitaria nei confronti di piu' soggetti. 
    Ove, infatti, venisse accolta la domanda spiegata dai ricorrenti,
tutti i comuni lombardi (e non solo il Comune  di  Milano)  sarebbero
tenuti a conformare il proprio comportamento alle  mutate  previsioni
regolamentari. 
5. Il diritto vantato dai ricorrenti. 
    L'Asgi, il Naga  e  il  sig.  K.  lamentano  l'esistenza  di  una
discriminazione indiretta nelle disposizioni  del  regolamento  della
Regione Lombardia 4 agosto 2017 n. 4, che prevedono un  requisito  di
residenza o  attivita'  lavorativa  nella  regione  nei  cinque  anni
antecedenti la data della  domanda,  che  dispongono  un  divieto  di
accesso al sistema abitativo pubblico per chi sia proprietario di  un
alloggio all'estero e che pongono un conseguente obbligo di  produrre
documentazione ulteriore e  differenziata  attestante  l'impossidenza
delle predette proprieta' all'estero. 
    Del tutto preliminare appare l'esame del requisito di residenza o
di svolgimento  di  attivita'  lavorativa  nella  Regione  Lombardia,
atteso che il mancato possesso del detto requisito rende  irrilevanti
le  ulteriori  questioni   relative   all'esistenza   di   proprieta'
all'estero e all'obbligo di documentare la  situazione  di  eventuale
impossidenza. Infatti, chi non risiede nella Regione Lombardia (o non
svolge nella detta regione attivita'  lavorativa)  da  almeno  cinque
anni  non  puo'  avere  accesso  ai  servizi  abitativi  pubblici,  a
prescindere dalla titolarita' di un immobile all'estero e dalla prova
dell'impossidenza  di  detti  beni  immobili.  Il  possesso  di  tale
requisito appare, pertanto, indispensabile ai  fini  dell'accesso  ai
servizi abitativi pubblici e la valutazione  sulla  ragionevolezza  e
proporzionalita' di tale previsione, rispetto alle  altre  contestate
dai ricorrenti, e' del tutto preliminare. 
    L'art. 7, primo comma, lettera b) del regolamento n. 4/2017 - con
disposizione coincidente con quella dell'art. 22, primo comma lettera
b) della L.R. n. 16 dell'8 luglio 20l6 - prevede che: «i  beneficiari
dei servizi abitativi pubblici devono avere i seguenti requisiti: ...
b) residenza anagrafica o  svolgimento  di  attivita'  lavorativa  in
Regione Lombardia per almeno cinque anni nel  periodo  immediatamente
precedente  la  data  di  presentazione  della  domanda».  La  citata
disposizione, inoltre, richiede il possesso di detto requisito  anche
per i nuclei familiari  in  condizioni  di  indigenza  (art.  13  del
regolamento) e  per  gli  interventi  di  emergenza  abitativa,  come
definiti dall'art. 23, comma 13 della L.R. n. 16/2016. 
    Ad avviso di questo giudice, la  questione  di  costituzionalita'
dell'art. 22, comma 1, lettera b) della L.R. n. 16/2016 e'  rilevante
e non manifestamente  infondata,  in  riferimento,  in  primo  luogo,
all'art. 3 Cost. e 10 Cost. (quest'ultima  norma  per  i  richiedenti
titolari di protezione internazionale  e  di  protezione  umanitaria)
all'art. 117 Cost.,  in  relazione  alla  direttiva  n. 2003/109  (e,
segnatamente, all'art. 11). 
6. Superamento del requisito della residenza o  attivita'  lavorativa
quinquennale,  attraverso  la  non  applicazione  delle  disposizioni
ritenute in contrasto con  la  normativa  europea  o  attraverso  una
lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata. 
    In primo luogo, va osservato che la controversia in esame  ha  un
oggetto che rientra nell'ambito di competenza  che  il  Trattato  sul
funzionamento dell'Unione europea assegna all'Unione. 
    L'esame  della  questione  di  compatibilita'  con   il   diritto
dell'Unione europea costituisce un prius logico e giuridico  rispetto
alla questione di legittimita'  costituzionale  in  via  incidentale,
poiche' investe la stessa applicabilita' della  norma  censurata  nel
giudizio principale (e, pertanto, la rilevanza della questione). 
    Tanto premesso, non pare inutile ricordare che il  contrasto  con
il diritto  dell'Unione  europea  condiziona  l'applicabilita'  della
norma censurata nel giudizio a quo - e di  conseguenza  la  rilevanza
delle questioni  di  legittimita'  costituzionale  che  si  intendano
sollevare sulla medesima - soltanto quando la norma europea e' dotata
di effetto diretto. Al riguardo,  come  recentemente  ribadito  dalla
Corte costituzionale nella sentenza n.  269/2017,  «deve  richiamarsi
l'insegnamento di questa Corte in base  al  quale  "conformemente  ai
principi affermati dalla sentenza della Corte di  giustizia  9  marzo
1978,  in   causa   C-106/77   (Simmenthal),   e   dalla   successiva
giurisprudenza di questa Corte, segnatamente con la sentenza  n.  170
del 1984 (Granital), qualora si tratti di  disposizione  del  diritto
dell'Unione  europea  direttamente  efficace,   spetta   al   giudice
nazionale  comune  valutare  la  compatibilita'   comunitaria   della
normativa interna censurata, utilizzando - se del caso  -  il  rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia, e  nell'ipotesi  di  contrasto
provvedere egli stesso all'applicazione della  norma  comunitaria  in
luogo della norma nazionale; mentre, in caso  di  contrasto  con  una
norma comunitaria priva di efficacia diretta  -  contrasto  accettato
eventualmente  mediante  ricorso  alla  Corte  di   giustizia   -   e
nell'impossibilita' di risolvere il contrasto in via  interpretativa,
il giudice nazionale deve  sollevare  la  questione  di  legittimita'
costituzionale, spettando poi a questa Corte valutare l'esistenza  di
un contrasto  insanabile  in  via  interpretativa  e,  eventualmente,
annullare la legge incompatibile con il  diritto  comunitario  (nello
stesso senso, Corte cost. n. 284 del 2007, n. 28 e n. 227 del 2010  e
n. 75 del 2012)" (ordinanza n. 207 del 2013)». 
    Nella pronuncia in esame, con considerazioni rilevanti  nel  caso
di specie, il giudice delle leggi ha ancora affermato che «quando una
disposizione di diritto interno diverge da norme dell'Unione  europea
prive  di  effetti  diretti,  occorre  sollevare  una  questione   di
legittimita' costituzionale, riservata alla esclusiva  competenza  di
questa  Corte,  senza   delibare   preventivamente   i   profili   di
incompatibilita' con il diritto europeo. In  tali  ipotesi  spetta  a
questa Corte giudicare la legge,  sia  in  riferimento  ai  parametri
europei (con riguardo alle priorita', nei giudizi in via  di  azione,
si veda, ad esempio, la sentenza n. 197 del 2014, ove si afferma  che
«la verifica della conformita' della norma impugnata alle  regole  di
competenza interna e'  preliminare  al  controllo  del  rispetto  dei
principi comunitari (sentenze n. 245 del 2013, n. 127 e  n.  120  del
2010)». 
    Una norma eurounitaria puo' essere ritenuta ad efficacia  diretta
(cd. self executing) quando, a prescindere dall'atto  comunitario  in
cui e' contenuta (sia esso o meno direttamente  applicabile)  imponga
ai destinatari un comportamento preciso ed incondizionato e  contenga
una disciplina completa che non necessita di una normativa  ulteriore
di attuazione da parte degli Stati membri, o  comunque  individui  un
diritto  soggettivo  o  prescriva  un  obbligo  che  possano   essere
immediatamente fatti valere in un giudizio. 
    La Corte di giustizia ha da tempo chiarito che in tutti i casi in
cui le disposizioni di una direttiva appaiono,  dal  punto  di  vista
sostanziale, incondizionate e  sufficientemente  precise,  i  singoli
possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello
Stato membro,vuoi qualora quest'ultimo abbia omesso di  trasporre  la
direttiva in diritto nazionale entro i termini, vuoi qualora  l'abbia
recepita in modo non corretto (v., in  particolare,  le  sentenze  19
novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich, punto 11, e
11 luglio 2002, causa C-62/00,  Marks  &  Spencer,  punto  25,  e  la
sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite C-397/01 a C-403/01,  Pfeiffer
e a., punto 103). 
    Alla luce della citata  giurisprudenza,  deve  ritenersi  che  le
disposizioni della direttiva n. 2003/109 - nella parte  rilevante  ai
fini del caso in esame - non possano  essere  ritenute  ad  efficacia
diretta. 
    Devono, a tal fine, essere considerati i seguenti elementi: 
        l'art. 11 primo comma  lettera  f)  della  direttiva  prevede
espressamente che il soggiornante di lungo periodo goda espressamente
dello stesso trattamento dei cittadini nazionali anche per  l'accesso
alla «procedura per l'ottenimento di un alloggio»,  ma,  allo  stesso
tempo, prevede che lo Stato  membro  possa  limitare  la  parita'  di
trattamento ai casi in cui il richiedente ha eletto dimora o  risiede
abitualmente nel suo territorio; 
        le previsioni in esame, pur essendo  chiare  e  precise,  non
sono incondizionate,  in  quanto  prevedono  la  possibilita'  di  un
intervento limitativo dello Stato membro; 
        la direttiva  in  esame  e'  stata  attuata  con  il  decreto
legislativo n. 3/2007 (cfr. in particolare art. 9,  comma  12,lettera
c). 
    Le  stesse  integrano,  pertanto,  quali  norme  interposte,   il
parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo  comma  Cost.,
nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna
ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. 
    Del   pari   non   appare   possibile   l'interpretazione   delle
disposizioni della L.R. n. 16/2016 orientata in senso  conforme  alle
disposizioni costituzionali. 
    L'art. 22 della L.R. n.  16,  infatti,  limita  espressamente  il
diritto di accesso ai servizi abitativi pubblici al possesso, tra gli
altri, del requisito di residenza quinquennale (o di  svolgimento  di
attivita' lavorativa nella Regione Lombardia). 
    La chiara lettera della legge, confermata anche dall'utilizzo  di
espressioni dal senso  univoco  (quali  «i  beneficiari  dei  servizi
abitativi pubblici devono avere i seguenti requisiti»), non  consente
alcuna interpretazione conforme all'art. 3 Cost. 
    In conclusione, si ritiene che il  presente  giudizio  non  possa
essere definito indipendentemente dalla risoluzione  della  questione
di  legittimita'  costituzionale  -  che,  pertanto,  si  solleva   -
dell'art. 22, comma 1 lettera b) della L.R. Lombardia n. 16/2016, per
contrasto  con  l'art.  3  Cost.  -  per  i  titolari  di  protezione
internazionale e di protezione  umanitaria  con  l'art.  10  Cost.  -
nonche' per contrasto con l'art. 117 comma 1 Cost., in relazione alla
direttiva n. 2003/109, interpretata  alla  luce  dell'art.  21  della
Carta dei diritti fondamentali. 
6. Rilevanza. 
    In merito alla rilevanza della questione, atteso che i ricorrenti
censurano piu' disposizioni  del  regolamento  regionale  (emesso  in
attuazione della legge regionale n.  16/2016,  il  cui  scrutinio  di
costituzionalita' appare imprescindibile ai  fini  della  risoluzione
del caso in esame), appare opportuno premettere alcune considerazioni
di carattere generale. 
    In primo  luogo  si  osserva  come  il  requisito  relativo  alla
residenza  o  attivita'  lavorativa  nella  regione  si  ponga   come
necessariamente  pregiudiziale  rispetto  agli   ulteriori   elementi
ritenuti discriminatori dai ricorrenti. Ove, infatti, il beneficiario
del servizio abitativo pubblico non risieda o  non  svolga  attivita'
lavorativa nella Regione Lombardia da oltre 5 anni,  egli  non  avra'
diritto di accedere al  predetto  servizio,  indipendentemente  dalla
titolarita' di altri beni immobili ubicati nel territorio italiano  o
all'estero (e alla prova di tale titolarita'). 
    In secondo luogo si osserva come - lette  le  disposizioni  della
legge regionale n. 16/2016 - ben sia possibile  accettare  la  natura
discriminatoria  delle  disposizioni  regolamentari   relative   agli
ulteriori requisiti censurati dai ricorrenti, a  prescindere  da  una
pronuncia della Corte costituzionale sulla predetta legge. 
    La  legge  regionale  n.  16,  infatti,  prevede  che,  ai  sensi
dell'art. 1, comma l, finalita' dei servizi  abitativi  pubblici  sia
quella di «soddisfare il bisogno  abitativo  primario  e  ridurre  il
disagio  abitativo  dei  nuclei  familiari,  nonche'  di  particolari
categorie sociali in condizioni di svantaggio». L'art. 22 della detta
legge, poi, indica tra i  requisiti  per  avere  accesso  ai  servizi
abitativi pubblici l'«assenza di titolarita' di diritti di proprieta'
o di altri diritti reali di godimenti su beni immobili adeguati  alle
esigenze del nucleo familiare,  ubicati  nel  territorio  italiano  o
all'estero». Mentre tale previsione appare  del  tutto  coerente  con
quanto  affermato  dalla  Corte  costituzionale  nella  sentenza   n.
176/2000 (in merito alla non irragionevolezza di una  previsione  che
preveda  una  preclusione  all'accesso   ai   servizi   di   edilizia
residenziale pubblica per chi aspiri all'assegnazione di un alloggio,
pur essendo titolare di un  bene  della  stessa  natura  dalla  quale
ricavi un'«utilita' comparabile» con quelle di un alloggio situato in
un «luogo  adeguato»),  a  diverse  conclusione  deve  giungersi  con
riferimento alla disposizione contenuta nell'art. 7, comma 1, lettera
D - nella parte in cui considera,  ai  fini  di  una  valutazione  di
adeguatezza  dell'alloggio,   la   sola   metratura   dello   stesso.
L'accertamento della ragionevolezza di tale previsione (e di  quella,
del  tutto  conseguente,   relativa   all'onere   di   documentazione
dell'assenza di proprieta' all'estero),  ai  fini  della  valutazione
dell'esistenza di una discriminazione, ben potrebbe essere effettuato
da questo giudice - in  seguito  alla  preliminare  e  non  eludibile
valutazione da parte del giudice delle leggi sulla  costituzionalita'
della previsione del requisito di residenza ed  attivita'  lavorativa
quinquennale - con  conseguente  disapplicazione  della  disposizione
regolamentare. 
    Tanto premesso, occorre distinguere la posizione  del  ricorrente
sig. K. da quella delle due associazioni ricorrenti. 
    In merito al sig. K., dai documenti  prodotti  dalla  difesa  del
ricorrente, emerge che: egli, di nazionalita' tunisina,  e'  arrivato
in Italia nel 2009 con un visto per motivi di studio; nel 2012,  dopo
aver conseguito la laurea in Discipline delle arti,  della  musica  e
dello spettacolo presso l'Universita' di Roma Tre, ha proseguito  gli
studi specialistici all'estero, per poi tornare in  Italia  nel  2015
(doc. 15 e 16); dal 2015 risiede in Lombardia con la moglie e  lavora
a Milano; dopo la nascita della  figlia  (il  27  luglio  2017),  nel
settembre del  2017  ha  presentato  la  domanda  per  l'assegnazione
dell'alloggio  ERP  presso  il  servizio  sportello  al  pubblico   e
monitoraggio servizi - area assegnazioni alloggi ERP  del  Comune  di
Milano; egli si e' recato al colloquio, ma il funzionario del comune,
dopo aver constatato l'assenza del requisito della  residenza  o  del
lavoro nel quinquennio antecedente, ha archiviato la  domanda  (fatto
non contestato). 
    Per poter decidere la domanda del ricorrente -  di  accertare  il
carattere discriminatorio dell'esclusione del ricorrente  in  ragione
del mancato  possesso  del  requisito  della  residenza  o  attivita'
lavorativa quinquennale e di  ordinare  alla  regione  resistente  di
modificare  il  predetto  regolamento,   escludendo   le   previsioni
discriminatorie - e si rende pertanto necessario applicare la L.R. n.
16/2016 (prima ancora che il regolamento n. 4/2017, che  alla  stessa
ha  dato  attuazione).  Le  disposizioni  di  tale  legge,   infatti,
costituiscono l'indefettibile presupposto normativo  del  regolamento
ritenuto discriminatorio ed oggetto del presente  giudizio.  Il  sig.
K., infatti, non potrebbe accedere ai servizi abitativi pubblici - in
relazione ai quali aveva presentato  una  domanda  -  atteso  che  lo
stesso non possiede il requisito previsto  dall'art.  22  lettera  b)
della citata legge regionale. L'eventuale accertamento  della  natura
discriminatoria di tale disposizione, pertanto, non puo'  prescindere
dallo scrutinio relativo alla conformita' o meno di  tale  previsione
al disposto dell'art. 3 della Costituzione. 
    Con riferimento alle censure svolte dalla  difesa  della  regione
resistente, si osserva che, ai fini  dell'accertamento  dell'invocata
discriminazione, appare  del  tutto  irrilevante  il  fatto  che,  al
momento  della  presentazione  della  domanda,   fosse   vigente   il
regolamento regionale antecedente al regolamento  n.  4/2017,  atteso
che il requisito della residenza o attivita' lavorativa  quinquennale
- requisito il cui possesso si pone,  come  evidenziato  poco  sopra,
come dirimente rispetto agli altri requisiti, in parte censurati  nel
presente ricorso - era  presente  in  entrambe  le  disposizioni  (in
quanto attuativo delle vigenti leggi regionali). 
    Del pari inconferente appare il richiamo al fatto che  il  Comune
di Milano non sarebbe stato individuato ai fini della sperimentazione
(DGR n. 73316 del 30 ottobre 2017),  atteso  che  il  regolamento  e'
comunque entrato in vigore in seguito al decorso di  sei  mesi  dalla
data di pubblicazione nel BURL (avvenuta l'8 agosto 2017)  e  che  le
sue disposizioni sono vincolanti per tutti i comuni lombardi. 
    In merito alla posizione delle due associazioni ricorrenti, basti
osservare che il NAGA e l'ASGI hanno proposto, in  proprio,  l'azione
collettiva ex art. 5 del decreto legislativo  n.  215/2003  volta  ad
accettare il carattere discriminatorio della  condotta  tenuta  dalla
Regione  Lombardia,  consistente  nell'aver  emanato  il  regolamento
regionale di cui alla deliberazione X/7004 del 31 luglio  2007  nella
parte in cui - tra le altre disposizioni  censurate  -  prevede,  per
l'accesso ai servizi abitativi pubblici il requisito della  residenza
o attivita'  lavorativa  quinquennale  nella  detta  regione,  o,  in
subordine, nella parie in cui prevede detti  requisiti  anche  per  i
nuclei familiari in condizioni di indigenza di cui  all'art.  13  del
regolamento e per  gli  interventi  di  emergenza  abitativa  di  cui
all'art. 23, comma 13, L.R. n. 16/2016. Appare, pertanto, evidente la
rilevanza della questione  di  costituzionalita'  per  l'accertamento
della ragionevolezza o della non ragionevolezza -  e,  dunque,  della
discriminazione - delle disposizioni censurate. Del  pari  rilevante,
con riferimento  alle  due  associazioni  ricorrenti,  portatrici  di
interessi collettivi (e, nel caso di specie, portatrici  del  diritto
dei titolari di protezione internazionale e di protezione  umanitaria
a  non  essere  discriminati)  la  questione  con  riferimento   alla
posizione dei richiedenti, gia' titolari di protezione internazionale
e di protezione umanitaria. 
7. Non manifesta infondatezza. 
        a) La questione di costituzionalita' dell'art. 22,  comma  1,
lettera b) della L.R. n. 16/2016 appare, ad avviso di questo giudice,
non manifestamente infondata in relazione, in primo luogo, all'art. 3
Cost. 
    L'art. 22, comma 1, lettera b) della legge citata indica,  tra  i
requisiti  per  avere  accesso  ai  servizi  abitativi  pubblici,  la
«residenza anagrafica o lo svolgimento  di  attivita'  lavorativa  in
Regione Lombardia  per  almeno  5  anni  nel  periodo  immediatamente
precedente la data di presentazione della domanda». 
    La  disposizione  in  esame  trova  applicazione  per   tutti   i
beneficiari dei servizi abitativi pubblici e,  dunque,  anche  per  i
«nuclei familiari in condizioni di indigenza» (art. 23, comma 3 della
legge n. 16/2016, ai sensi del quale «si considerano in condizioni di
indigenza i nuclei familiari che dichiarano una situazione  economica
pari o inferiore all'indicatore di situazione  economica  equivalente
corrispondente  ad  una  soglia  di  poverta'  assoluta  e  di  grave
deprivazione materiale ... ») e  nell'ambito  della  c.d.  «emergenza
abitativa» disciplinata dall'art. 23, comma 13 della legge  in  esame
(cioe' nell'ambito dell'intervento  volto  a  «contenere  il  disagio
abitativo di particolari  categorie  sociali,  soggette  a  procedure
esecutive di rilascio degli immobili .... »). 
    La Corte costituzionale ha da tempo  rilevato  che  le  finalita'
proprie dell'edilizia residenziale pubblica sono quelle di «garantire
un'abitazione a soggetti economicamente deboli nel luogo  ove  e'  la
sede dei loro interessi» (sentenza n.  176  del  2000),  al  fine  di
assicurare un'esistenza dignitosa a tutti coloro che  non  dispongono
di risorse sufficienti (art. 34 della Carta dei diritti  fondamentali
dell'Unione europea), mediante un  servizio  pubblico  deputato  alla
«provvista di alloggi per i lavoratori e le famiglie  meno  abbienti»
(sentenze n. 417 del 1994, n. 347 del 1993, n. 486 del 1992). Piu' di
recente, il Giudice delle leggi ha espressamente affermato  che  «dal
complesso delle  disposizioni  costituzionali  relative  al  rispetto
della persona umana, della sua dignita' e delle condizioni minime  di
convivenza civile, emerge,  infatti,  con  chiarezza  che  l'esigenza
dell'abitazione assume i connotati di una pretesa volta a  soddisfare
un  bisogno  sociale  ineludibile,   un   interesse   protetto,   cui
l'ordinamento deve dare adeguata soddisfazione, anche se  nei  limiti
della disponibilita' delle  risorse  finanziarie.  Per  tale  motivo,
l'accesso all'edilizia residenziale pubblica e' assoggettato  ad  una
serie  di  condizioni  relative,  tra  l'altro,  ai  requisiti  degli
assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica,  quali,  ad
esempio, il basso reddito familiare (sentenza  n.  121  del  1996)  e
l'assenza di titolarita' del diritto di proprieta' o di diritti reali
di godimento su di un immobile adeguato alle esigenze  abitative  del
nucleo familiare dell'assegnatario stesso, requisiti  sintomatici  di
una situazione di reale bisogno» (Corte costituzionale n. 168/2014). 
    In questa prospettiva, la legge n.  16  del  2016  della  Regione
Lombardia, intitolata «Disciplina regionale dei  servizi  abitativi»,
dispone, all'art. 1, che «la presente legge disciplina i soggetti,  i
servizi e gli strumenti del sistema regionale dei  servizi  abitativi
al fine di soddisfare il fabbisogno abitativo primario e  di  ridurre
il disagio abitativo dei nuclei  familiari,  nonche'  di  particolari
categorie sociali in condizioni di  svantaggio».  Nel  capo  dedicato
alla «disciplina dei servizi abitativi pubblici», all'art. 21 prevede
che tali servizi «si rivolgono ai nuclei familiari che si trovano  in
uno stato di disagio economico, familiare ed abitativo, accertato  ai
sensi del regolamento di cui all'art. 23» (sopra citato). Al fine  di
realizzare tale servizio sociale, la regione ha  stabilito,  all'art.
22, specifici criteri di accesso per l'assegnazione dei beni  facenti
parte del patrimonio abitativo regionale in  esame,  fra  i  quali  -
accanto alla previsione di  indicatori  del  basso  reddito  e  della
assenza di titolarita' di diritti di proprieta' o  di  altri  diritti
reali di godimento su beni immobili adeguati alle esigenze  abitative
del nucleo familiare  richiedente  -  indica,  alla  lettera  b),  il
diverso criterio della residenza o dello  svolgimento  dell'attivita'
lavorativa protratta per cinque anni sul territorio regionale. 
    La Corte costituzionale ha, peraltro, affermato «il principio che
"se al legislatore, sia statale che  regionale  (e  provinciale),  e'
consentito introdurre una disciplina differenziata per l'accesso alle
prestazioni  assistenziali  al  fine   di   conciliare   la   massima
fruibilita' dei benefici previsti con la  limitatezza  delle  risorse
finanziarie disponibili" (sentenza n. 133  del  2013),  tuttavia  "la
legittimita' di una simile scelta non esclude che i canoni  selettivi
adottati debbano comunque rispondere al principio di  ragionevolezza"
(sentenza n. 133 del 2013) e che, quindi, debbano essere in ogni caso
coerenti ed adeguati a fronteggiare le situazioni  di  bisogno  o  di
disagio, riferibili direttamente alla persona  in  quanto  tale,  che
costituiscono  il  presupposto  principale   di   fruibilita'   delle
provvidenze in questione (sentenza n. 40 del 2011)» (sentenza n.  168
del  2014).  Ha  inoltre  affermato  che  «l'introduzione  di  regimi
differenziati e' consentita solo in presenza di una  causa  normativa
non palesemente irrazionale o arbitraria, che sia cioe'  giustificata
da una ragionevole correlazione tra la condizione cui e'  subordinata
l'attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti  che  ne
condizionano il riconoscimento e ne definiscono la  ratio»  (sentenza
n. 172 del 2013). 
    Con  particolare  riferimento  al   requisito   della   residenza
protratta, proprio  nella  sentenza  invocata,  non  pertinentemente,
dalla  difesa  regionale  (la  sentenza   n.   32/2008),   la   Corte
costituzionale - chiamata a valutare la  legittimita'  costituzionale
dell'art. 3, comma 41-bis, della  legge  della  Regione  Lombardia  5
gennaio 2000,  n.  1  (cosi'  come  modificata  legge  della  Regione
Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7) che prevedeva, per la  presentazione
della domanda, il requisito della residenza protratta in Lombardia  o
dell'attivita' lavorativa in detta regione  per  5  anni  antecedenti
alla data della  domanda  -  ha  affermato  che  il  requisito  della
residenza  continuativa,  ai  fini  dell'assegnazione,  risulta   non
irragionevole (sentenza n. 432 del 2005) quando si pone  in  coerenza
con le finalita' che il legislatore intende perseguire  (sentenza  n.
493 del 1990), specie la' dove le stesse  realizzino  un  equilibrato
bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco (ordinanza n.  393
del 2007). 
    Nella sentenza in esame, il  Giudice  delle  leggi  non  si  era,
pero', ancora pronunciato sul rispetto dei principi di ragionevolezza
ed eguaglianza. 
    Nelle  pronunce  successive  a  quella   del   2008,   la   Corte
costituzionale ha infatti chiarito che la  previsione  del  requisito
della  residenza  protratta  per  un  predeteminato  e  significativo
periodo  minimo  di  tempo  (nella  specie,  quinquennale),  ove   di
carattere generale e dirimente, non risulta rispettosa  dei  principi
di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto «introduce nel  tessuto
normativo elementi di distinzione arbitrari»,  non  essendovi  alcuna
ragionevole correlazione tra la durata prolungata della  residenza  e
le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili  direttamente  alla
persona in quanto tale, che in linea astratta ben  possono  connotare
la domanda di accesso al sistema di protezione sociale  (sentenza  n.
40 del 2011)» (sentenza n. 222 del 2013). 
    Alla luce della giurisprudenza  costituzionale  appena  ricordata
(non specificamente presa in esame dalla difesa regionale, ne'  nella
comparsa di costituzione, ne' nelle note difensive  autorizzate),  ad
avviso di questo giudice, la norma in esame risulta lesiva  dell'art.
3 Cost. 
    La configurazione della residenza (o dell'occupazione)  protratta
come  condizione  dirimente  per  l'accesso  ai   servizi   abitativi
pubblici, anche per  le  famiglie  economicamente  deboli,  si  pone,
difatti, in  patente  contrasto  con  la  vocazione  sociale  propria
dell'esigenza dell'abitazione (nei limiti sopra ricordati). 
    Il servizio abitativo pubblico, infatti, rispondendo direttamente
a  finalita'  di  eguaglianza  sostanziale  predicata   espressamente
dall'art. 3, secondo comma Cost., garantisce un'abitazione a soggetti
economicamente deboli nel luogo ove e' la sede dei loro interessi  ed
elimina un ostacolo che limita  detta  eguaglianza  ed  impedisce  il
pieno sviluppo della persona umana. 
    Il requisito previsto dalla norma in esame - che non si limita  a
riconoscere una preferenza a chi risiede o  lavora  in  Lombardia  da
«almeno cinque anni», ma che prevede  il  requisito  del  radicamento
territoriale legato al solo decorso del quinquennio  come  limite  di
accesso al servizio abitativo - non ha, viceversa, alcun  ragionevole
collegamento con la funzione sociale dei servizi abitativi pubblici. 
    In secondo luogo, si osserva  come  il  limite  alla  prestazione
sociale oggetto del presente giudizio - il requisito di  residenza  o
attivita'  lavorativa  quinquennale  -  non  risponda  al  necessario
criterio di ragionevolezza. Non vi e',  infatti,  alcuna  ragionevole
correlazione tra la durata della residenza,  prevista  dall'art.  22,
lettera b) della legge n. 16/2016  (durata  che  costituisce  l'unico
strumento di valutazione del radicamento con  il  territorio),  e  la
situazione di disagio economico che il  servizio  abitativo  pubblico
mira ad alleviare. Non puo' infatti  ragionevolmente  presumersi  che
coloro che vivono nella Regione Lombardia  da  meno  di  cinque  anni
soffrano una condizione di disagio minore rispetto a chi  vi  risieda
da piu' anni. La  Corte  costituzionale  ha  gia'  affermato  che  il
requisito della residenza protratta,  ove  di  carattere  generale  e
dirimente (come nel caso  di  specie),  non  risulta  rispettosa  dei
principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto «introduce nel
tessuto normativo elementi di distinzione  arbitrari,  non  essendovi
alcuna  ragionevole  correlazione  tra  la  durata  prolungata  della
residenza e  le  situazioni  di  bisogno  e  di  disagio,  riferibili
direttamente alla persona in quanto tale, che in linea  astratta  ben
possono  connotare  la  domanda  di  accesso  al  sistema  protezione
sociale» (sentenza n. 222 del 2013). 
    In terzo luogo, si osserva come l'applicazione del  requisito  di
residenza o di lavoro quinquennale anche ai casi di «nuclei familiari
in condizioni di indigenza» porti ad escludere - come  peraltro  gia'
affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 166/2018 - che
possa   ravvisarsi   alcuna   ragionevole   correlazione    tra    il
soddisfacimento dei bisogni abitativi primari della persona che versi
in condizioni di  «di  poverta'  assoluta  e  di  grave  deprivazione
materiale» (art. 23 legge n. 16/2016) e sia insediata nel  territorio
regionale e la  lunga  protrazione  nel  tempo  di  tale  radicamento
territoriale (cfr., altresi', Corte Cost. 222 del  2013,  n.  40  del
2011 e n. 187 del 2010). 
        b) La questione  appare,  inoltre,  per  quanto  riguarda  il
ricorso proposto dalle  associazioni,  non  manifestamente  infondata
anche con riferimento all'art. 10 Cost. (oltre che all'art. 3  Cost.,
per le ragioni sopra richiamate), per quanto  riguarda  la  categoria
dei titolari di protezione internazionale e di protezione umanitaria. 
    L'art. 10 comma III Cost., infatti, prevede che:  «lo  straniero,
al quale sia impedito  nel  suo  paese  l'effettivo  esercizio  delle
liberta'  democratiche  garantite  dalla  Costituzione  italiana,  ha
diritto  d'asilo  nel  territorio  della   Repubblica,   secondo   le
condizioni stabilite dalla legge». 
    La Suprema corte (cfr. Cassazione 4 agosto 2016 n. 16362)  ha  da
tempo chiarito che il diritto d'asilo,  ex  art.  10  Cost.,  risulta
interamente attuato e regolato attraverso le tre forme di  protezione
previste dall'ordinamento vigente (rifugio, protezione sussidiaria  e
protezione umanitaria). 
    Orbene, l'art. 22 della L.R. n. 16/2016  trova  applicazione  nei
confronti di tutti  i  potenziali  richiedenti  e  dunque  anche  nei
confronti dei titolari di protezione internazionale e  di  protezione
umanitaria. 
    Il decreto legislativo n. 251 del 2007 - che ha disciplinato,  in
attuazione della direttiva n. 2004/83/CE (cd «Direttiva qualifiche»),
il riconoscimento allo straniero della qualifica di rifugiato  o  del
diritto  alla  protezione  sussidiaria  in  base  ai  principi   gia'
contenuti nella Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951  -  prevede
che uno dei requisiti per ottenere la protezione in esame sia proprio
l'impossibilita' di fare ritorno nel  proprio  Paese  d'origine.  Del
pari, uno  dei  requisiti  per  il  riconoscimento  della  protezione
umanitaria  e'  rappresentato  dall'impedimento  all'esercizio  delle
liberta'   democratiche   nel    paese    d'origine    (e,    dunque,
l'impossibilita' di fare ritorno nel detto paese). 
    La possibilita' di accedere al servizio di edilizia  residenziale
pubblica, per tali categorie di persone,  non  puo'  pertanto  essere
ragionevolmente  legata  al  radicamento  sul  territorio  (ne'  tale
radicamento  puo'  essere  ritenuto  rispettoso  del   principio   di
proporzionalita'), ma, una volta ottenuta la protezione - in  ragione
dei  requisiti  previsti  per  il  riconoscimento  dello  status   di
rifugiato, di quella sussidiaria o  umanitaria  -  la  situazione  di
bisogno (che  legittima  la  presentazione  della  domanda)  dovrebbe
essere disciplinata con riferimento ad altre condizioni  (individuate
dal legislatore  in  armonia  con  le  finalita'  della  legge  sopra
descritte, ed in coerenza con  le  caratteristiche  dei  titolari  di
protezione e con i diritti ad essa connessi). 
        c) La questione appare, inoltre, non manifestamente infondata
anche con riferimento all'art. 117 Cost., in relazione alla direttiva
n. 2003/109 (e segnatamente all'art. 11). 
    L'art. 11 della direttiva in esame prevede che: «Il  soggiornante
di  lungo  periodo  gode  dello  stesso  trattamento  dei   cittadini
nazionali per quanto riguarda: ... lettera  f)  l'accesso  a  beni  e
servizi a disposizione del pubblico e  all'erogazione  degli  stessi,
nonche' alla procedura per l'ottenimento di un alloggio». Il  secondo
comma dispone: «Per quanto riguarda le disposizioni del paragrafo  1,
lettere b), d), e),  f)  e  g),  lo  Stato  membro  interessato  puo'
limitare la parita' di trattamento ai casi in cui il soggiornante  di
lungo periodo, o il familiare per cui questi chiede  la  prestazione,
ha eletto dimora o risiede abitualmente nel suo territorio». 
    Nella disposizione normativa in esame non si prevede soltanto una
limitazione per chi «dimora o risiede abitualmente», ma si impone una
preclusione all'accesso, in difetto  di  un  requisito  di  residenza
prolungata (o di attivita' lavorativa) per ben cinque anni. 
    In relazione ai requisiti di residenza prolungata,  la  Corte  di
giustizia  dell'Unione  europea  ha  affermato  che   «una   siffatta
normativa nazionale, che svantaggia taluni  cittadini  di  uno  Stato
membro per il solo fatto che essi hanno esercitato la  loro  liberta'
di circolare e di soggiornare in un altro Stato  membro,  costituisce
una restrizione alle liberta' riconosciute dall'art. 21, n.  l,  TFUE
ad ogni cittadino dell'Unione», e che «una  simile  restrizione  puo'
essere giustificata, con riferimento al diritto dell'Unione, solo  se
e' basata su considerazioni oggettive indipendenti dalla cittadinanza
delle  persone   interessate   ed   e'   proporzionata   allo   scopo
legittimamente perseguito dal diritto nazionale» (sentenza 21  luglio
2011, in causa C-503/09, Stewart, punti 86 e 87; si vedano  anche  le
sentenze 26 febbraio 2015, in causa C-359/13, B. Martens; 24  ottobre
2013, in  causa  C-220/12,  Andreas  lngemar  Thiele  Meneses  (punti
22-29); 15 marzo 2005, in causa C-209/03, The Queen, ex parte di Dany
Bidar, punti 51-54; 23 marzo 2004, in causa C-138/02,  Brian  Francis
Collins; 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Gerhard Köbler). 
    La Corte di giustizia non esclude a  priori  l'ammissibilita'  di
requisiti di residenza per  l'accesso  a  prestazioni  erogate  dagli
Stati membri, ma richiede che la norma persegua uno scopo  legittimo,
che sia proporzionata, e che il criterio  adottato  non  sia  «troppo
esclusivo», potendo sussistere altri elementi rivelatori  del  «nesso
reale» tra il richiedente e lo Stato (si vedano  le  citate  sentenze
Stewart, punti 92 e 95, e Thiele Meneses, punto 36). 
    Orbene, non sembra potersi ritenere che la norma in  esame,  alla
luce  delle  considerazioni  sopra  espresse,  persegua   uno   scopo
legittimo. Se, infatti, scopo della legge e' quello di «soddisfare il
fabbisogno abitativo primario e di ridurre il disagio  abitativo  dei
nuclei  familiari,  nonche'  di  particolari  categorie  sociali   in
condizioni di svantaggio» (art.  1  della  legge  n. 16/16),  non  si
comprende  come  tale  scopo  possa   essere   raggiunto   attraverso
l'esclusione tout court di persone  bisognose  (tra  le  quali  anche
quelle appartenenti a nuclei familiari in  condizioni  di  indigenza)
che risiedono in Lombardia da un periodo  di  tempo  inferiore  ai  5
anni. 
    La disposizione  normativa  oggetto  del  presente  procedimento,
inoltre, non appare rispettosa  del  principio  di  proporzionalita',
prevedendo l'obbligo incondizionato di  residenza  da  almeno  cinque
anni  quale  presupposto  necessario  per  la  stessa  ammissione  al
beneficio dell'accesso  all'edilizia  residenziale  pubblica  e  non,
invece, come mera regola di preferenza. 
    Il fatto che tale disposizione si risolva in una  discriminazione
anche per i cittadini italiani (non radicati in Lombardia da piu'  di
cinque anni) non e'  poi  rilevante  ai  fini  della  conformita'  al
diritto europeo (Corte di  giustizia  dell'Unione  europea,  sentenze
Thiele Meneses,  punto  27;  16  gennaio  2003,  in  causa  C-388/01,
Commissione, punto 14; 6 giugno 2000, in  causa  C-281/98,  Angonese,
punto 41). 
    La Corte  costituzionale,  peraltro  -  sebbene  investita  della
questione in via principale e  non  incidentale,  come  nel  caso  di
specie - ha gia'  censurato,  per  violazione  dell'art.  117,  primo
comma, Cost., e dell'art. 21 TFUE, una norma che  annoverava,  fra  i
requisiti  di  accesso   all'edilizia   residenziale   pubblica,   la
«residenza nella Regione da almeno  otto  anni,  maturati  anche  non
consecutivamente»: scrive, in proposito, il Giudice delle  leggi  «la
norma regionale in esame li pone [i cittadini dell'Unione europea] in
una condizione di inevitabile svantaggio in particolare rispetto alla
comunita'  regionale,  ma  anche  rispetto  agli   stessi   cittadini
italiani, che potrebbero piu' agevolmente maturare gli otto  anni  di
residenza in maniera non consecutiva, realizzando una discriminazione
vietata dal diritto comunitario [ ... ], in particolare dall'art.  18
del TFUE, in quanto determina una compressione  ingiustificata  della
loro liberta' di circolazione e soggiorno, garantita dall'art. 21 del
TFUE» (sentenza n. 168 del 2014; si vedano anche le sentenze  n.  190
del 2014 e n. 264 del 2013). 
    Al  di  la'  ed  a  prescindere  dalla  natura  -  incidentale  o
principale - del giudizio  sottoposto  all'esame  della  Corte,  deve
pertanto ritenersi che, anche  nel  caso  di  specie,  la  previsione
dell'obbligo di residenza da almeno cinque  anni,  quale  presupposto
necessario  per  la  stessa  ammissione  al  beneficio   dell'accesso
all'edilizia residenziale pubblica (e non, quindi, come  mera  regola
di preferenza), determini un'irragionevole  discriminazione  sia  nei
confronti dei cittadini dell'Unione, ai quali deve  essere  garantita
la parita' di trattamento rispetto ai cittadini  degli  Stati  membri
(art. 24, par. 1, della direttiva n. 2004/38/CE), sia  nei  confronti
dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo,
i quali, in virtu' dell'art.  11,  paragrafo  1,  lettera  f),  della
direttiva  n.  2003/109/CE,  godono  dello  stesso  trattamento   dei
cittadini  nazionali  per  quanto  riguarda  anche   l'accesso   alla
procedura per l'ottenimento di un alloggio. 
    La fattispecie in esame e' dunque sovrapponibile  a  quella  gia'
esaminata dalla Corte costituzionale, sebbene in via principale e non
incidentale,  quanto  ai  principi  affermati,  nella   sentenza   n.
168/2014,  avente  ad  oggetto  la  declaratoria  di   illegittimita'
costituzionale dell'art. 19, comma 1, lettera b), della  legge  della
Regione Valle d'Aosta n. 3 del 2013, nella parte in cui indica, fra i
requisiti di accesso all'edilizia residenziale pubblica, quello della
«residenza» nella Regione da almeno otto  anni,  maturati  anche  non
consecutivamente». Nella pronuncia in esame - con argomentazioni che,
nella   parte   relativa   alla   valutazione   del   principio    di
ragionevolezza, ben  possono  essere  valutate  nel  caso  in  esame,
relativo ad un giudizio in via incidentale - il Giudice  delle  leggi
ha ravvisato nel requisito della residenza protratta un'irragionevole
discriminazione sia nei confronti dei cittadini dell'Unione, sia  nei
confronti dei cittadini di Paesi  terzi  che  siano  soggiornanti  di
lungo periodo. Si legge, difatti, nella citata sentenza:  «quanto  ai
primi, risulta evidente che la norma regionale in esame  li  pone  in
una condizione di inevitabile svantaggio in particolare rispetto alla
comunita'  regionale,  ma  anche  rispetto  agli   stessi   cittadini
italiani, che potrebbero piu' agevolmente maturare gli otto  anni  di
residenza in maniera non consecutiva, realizzando una discriminazione
vietata dal diritto comunitario (oggi «diritto dell'Unione  europea»,
in virtu' dell'art. 2, numero 2, lettera a, del Trattato di  Lisbona,
che modifica il  trattato  sull'Unione  europea  e  il  trattato  che
istituisce la Comunita' europea, firmato a  Lisbona  il  13  dicembre
2007), in particolare dall'art 18 del TFUE, in quanto  determina  una
compressione ingiustificata della loro  liberta'  di  circolazione  e
soggiorno, garantita dall' art. 21 del TFUE.  Infatti,  il  requisito
della residenza protratta per  otto  anni  sul  territorio  regionale
induce i cittadini  dell'Unione  a  non  esercitare  la  liberta'  di
circolazione abbandonando lo Stato membro cui appartengono (Corte  di
giustizia, sentenza 21 luglio  2011,  in  causa  C-503/09,  Stewart),
limitando  tale  liberta'  in  una  misura  che   non   risulta   ne'
proporzionata, ne' necessaria al pur legittimo  scopo  di  assicurare
che a  beneficiare  della  provvidenza  siano  soggetti  che  abbiano
dimostrato un livello sufficiente  di  integrazione  nella  comunita'
presso la quale risiedono (Corte  di  giustizia,  sentenza  23  marzo
2004, in causa C-138/02, Collins), anche al  fine  di  evitare  oneri
irragionevoli onde preservare l'equilibrio  finanziario  del  sistema
locale di assistenza sociale (Corte di giustizia, sentenza  2  agosto
1993, in cause riunite C-259/91, C-331/91 e  C-332/91,  Allue').  Non
e', infatti, possibile presumere, intermini assoluti, che i cittadini
dell'Unione che risiedano nel territorio regionale da  meno  di  otto
anni, ma che siano pur sempre ivi stabilmente residenti o  dimoranti,
e che quindi abbiano instaurato un legame con  la  comunita'  locale,
versino in stato di bisogno minore rispetto a chi vi risiede o dimora
da piu' anni e, per cio' stesso siano estromessi  dalla  possibilita'
di accedere al beneficio. Sulla base di analoghe  argomentazioni,  e'
agevole ravvisare la portata irragionevolmente discriminatoria  della
norma regionale impugnata anche con riguardo ai  cittadini  di  Paesi
terzi che siano  soggiornanti  di  lungo  periodo.  L'art.  11  della
direttiva n. 2003/109/CE stabilisce, alla lettera f) del paragrafo 1,
che il soggiornante di lungo periodo gode  dello  stesso  trattamento
dei cittadini nazionali per  quanto  riguarda  «l'accesso  a  beni  e
servizi a disposizione del pubblico e  all'erogazione  degli  stessi,
nonche' alla  procedura  per  l'ottenimento  di  un  alloggio».  Tale
previsione, che e' stata recepita dall'art. 9, comma 12, lettera  c),
del decreto legislativo n. 286 del 1998  (nel  testo  modificato  dal
decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, recante  «Attuazione  della
direttiva 2003/109/CE relativa allo  status  di  cittadini  di  Paesi
terzi soggiornanti di lungo periodo»),  mira  ad  impedire  qualsiasi
forma dissimulata  di  discriminazione  che,  applicando  criteri  di
distinzione diversi dalla cittadinanza, conduca di fatto allo  stesso
risultato,  a  meno  che  non  sia  obiettivamente   giustificata   e
proporzionata al suo scopo. La previsione di una certa anzianita'  di
soggiorno o di residenza sul territorio  ai  fini  dell'accesso  agli
alloggi  di  edilizia  residenziale  pubblica,  che  si  aggiunge  al
requisito prescritto per ottenere lo status di soggiornante di  lungo
periodo, costituito dal possesso del permesso di soggiorno da  almeno
cinque anni nel territorio dello Stato, ove tale  soggiorno  non  sia
avvenuto  nel  territorio  della  regione,   potrebbe   trovare   una
ragionevole giustificazione nella  finalita'  di  evitare  che  detti
alloggi siano assegnati a persone che, non avendo  ancora  un  legame
sufficientemente stabile con il territorio, possano poi rinunciare ad
abitarvi,  rendendoli  inutilizzabili  per  altri  che  ne  avrebbero
diritto,   in   contrasto   con   la   funzione   socio-assistenziale
dell'edilizia residenziale pubblica. Tuttavia, l'estensione  di  tale
periodo di residenza fino ad una durata molto prolungata, come quella
pari  ad  otto  anni  prescritta  dalla  norma   impugnata,   risulta
palesemente sproporzionata allo scopo ed incoerente con le  finalita'
stesse dell'edilizia residenziale pubblica ... ». 
    La giurisprudenza costituzionale appena  richiamata  consente  di
ritenere che anche il requisito di  residenza  protratta  per  cinque
anni in Lombardia o di svolgimento  di  attivita'  lavorativa  (nella
medesima regione)  nel  quinquennio  almeno  precedente  la  data  di
presentazione  della  domanda  non  possa  giustificarsi  in  ragione
dell'esigenza di evitare di assegnare i servizi abitativi pubblici  a
persone che non hanno  un  legame  sufficientemente  stabile  con  il
territorio, atteso che richiedere una residenza di almeno cinque anni
si appalesa in contrasto con le finalita' della  legge  sull'edilizia
residenziale  pubblica  e   risulta   irragionevole   e   del   tutto
sproporzionato rispetto allo  scopo  perseguito  (essendo,  peraltro,
previsto come criterio  esclusivo  per  valutare  l'esistenza  di  un
determinato livello di radicamento territoriale).